È proprio vero, epoca che vai, usanze che trovi.
L’era Postmoderna, “caratterizzata da un’economia e una finanza estese globalmente, dall’invadenza della pubblicità e della televisione nelle convinzioni personali, e da un enorme flusso di notizie provenienti dal web, ormai incontrollabile e inverificabile[1]”, applicata a diversi settori culturali, porta con sé importanti trasformazioni nello stile di vita. Come avviene per ogni passaggio epocale si abbandonano approcci e idee desuete e si assiste alla nascita di nuovi costrutti. La Postmodernità denota un diverso modo di rapportarsi al moderno, che non è né di opposizione né di superamento, e del quale si avrà una chiave di lettura quando lascerà il posto all’epoca che subentrerà. Tuttavia è possibile osservare in itinere come l’uomo si sta adattando a questo nuovo contesto; Di sicuro, quando questo non avviene, si parla di mal adattamento e da qui sfociano le condotte psicopatologiche.
È una società complessa questa in cui viviamo, che cambia così freneticamente da non darci un tempo per comprendere ciò che accade, siamo però in grado di analizzare i flussi, i processi, e i funzionamenti mentali. Nell’epoca precederne l’idea di successo personale era misurato in base al tempo libero che si aveva a disposizione, e a cosa si faceva durante questo tempo. Il numero di viaggi selettivi durante l’anno, auto da sogno parcheggiate in garage, arredamenti di lusso, abbigliamento esclusivo … Oggi il concetto di successo è radicalmente mutato e l’unità di misura è diventata il darsi da fare. È questo il parametro che ci dice quanto valiamo nella società. In un’era in cui non si ha tempo da perdere, in cui le 24 ore non sono più sufficienti, siamo connessi a internet twenty four hours, con lo smartphone sempre in mano, l’auricolare all’orecchio, il portatile ovunque, si lavora anche la sera e il fine settimana. Quest’operosità la rappresentiamo a tutti come un indice di successo, per cui quando ci chiedono “Come stai?” rispondiamo “tremendamente occupato!”
Essere “indaffarato” ci fa sentire desiderati, necessari, quotati positivamente e meritevoli perché in qualche modo stiamo contribuendo alla società e abbiamo bisogno di dimostrare il nostro valore agli altri.
Questo nesso causale ha origine già nell’infanzia, quando ci tessano lodi per ogni eccellente performance, e da allora cresciamo secondo questa formula: più impegnati = più valiamo!
Alla lunga questa intrinseca concezione che si tramuta in un vero e proprio modus vivendi, che porta con sé le sue paure. Se non rispondiamo immediatamente a quella chiamata qualcun altro lo farà, se non siamo disponibili 24 ore su 24 al lavoro non saremo più considerati allo stesso modo, se ci prendiamo una pausa rischiamo di perdere tutto ciò che abbiamo raggiunto. Diventiamo ciò che facciamo.
La cornice di riferimento storica ha una sua influenza, ma a volte l’incapacità a dire di no è la deriva di uno stile di attaccamento insicuro sviluppato nella prima infanzia (Bowlby 1969), che implica una moltitudine di emozioni concomitanti e contrastanti verso la propria figura primaria, come possono essere amore, dipendenza, paura del rifiuto, vigilanza e irritabilità, o da un riconoscimento non ricevuto dai nostri genitori, che ancora attendiamo. L’affaccendarsi come piccole api operose è anche un modo per nascondere le proprie insicurezze e fragilità emotive o per sfuggire alla difficoltà relazionali, perché quando siamo presi dal lavoro non abbiamo tempo di prestare attenzione ai sentimenti.
Se basiamo la nostra autostima sulla performance, sulla realizzazione e sul guadagno sul fatto di compiacere gli altri, non solo togliamo spazio alle relazioni importanti, ma facciamo un danno anche a noi stessi perché finiremo per pensare che soli non serviamo a nulla.
Come uscirne?
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Postmodernismo
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